Astrid Lindgren, nel 1945, in piena seconda guerra mondiale, inventa Pippi Calzelunghe, la fortunatissima serie della bambina dai capelli rossi.
Grazie alla forza, all’ottimismo, alla grandezza, alla fantasia straordinariamente surreale della sua autrice, Pippi Calzelunghe diventerà famosa in tutto il mondo.
Tra i suoi personaggi c’è un papà capitano di nave naufragato sull’isola Cip-Cip e poi diventato Re “di una tribù di negri”.
I bambini nativi dell’isola sono rappresentati secondo gli stereotipi del buon selvaggio: parlano all’infinito (“Bambini bianchi non sapere sputare”), vivono in capanne di bambù, passano le giornate a intrecciare corone di fiori bianchi. Sono il normale frutto della fantasia di un’autrice che non aveva mai messo piede fuori dalla Svezia.
Anche nel film del 1969 (quando in Italia si cantava con Edoardo Vianello di “Watussi”, altissimi negri) Pippi a un certo punto dice che il padre è diventato “re di una tribù di negri”.
Ma i “negretti” di Pippi Calzelunghe, hanno sollevato più di un polverone.
Nel dicembre del 2012, il Ministro tedesco Kristina Schröder ha affermato pubblicamente di voler edulcorare i concetti razzisti presenti nelle fiabe (citando, tra queste, i Fratelli Grimm e, appunto, Pippi Calzelunghe).
Il libro subì un intervento censorio qualche anno fa, su iniziativa della teologa tedesca Eske Wollrad, e una casa editrice tedesca, per evitare l’odore di razzismo, sostituì “Regina negra” con il più politicamente corretto “Regina dei Mari del Sud”.
Recentemente una mamma di colore, in visita al Parco a tema di Junibacken, ha protestato per la presenza di magliette che raffiguravano Pippi Calzelunghe circondata da bambini neri intenti a farle aria con grandi foglie di palma. Insomma, Pippi Calzelunghe inviterebbe al razzismo.
Anche la tv svedese è intervenuta con censure: il “Re dei negri” diventa “Re” e basta, e viene eliminata la sequenza in cui la ragazzina ribelle “fa il cinese”.
Tutto questo per salvaguardare il pubblico infantile da quanto appariva politicamente scorretto. Attenzione alle letture dei nostri bambini! Pippi non sarebbe solo razzista, e anche un po’ ladra, parecchio maleducata, decisamente antianimalista, da segnalare ai servizi sociali (vive da sola!), e semianalfabeta. Un vero disastro educativo.
Ma per fortuna dalla maggioranza degli svedesi tutto questo discorso non è condiviso. In un sondaggio, l’81% degli svedesi trova assurdo occuparsi di queste cose. Erik Helmerson, editorialista del Dagens Nyheter, ha affermato “Io non userei mai la parola “negro”, ma tagliarla dal film è una grave interferenza”.
D’altronde negli Usa ci sono poliziotti che al posto delle “g” mettono pallottole. Così si può morire neri e non negri.
Larry Holmes, ex campione di pugilato, ha affermato: “Anch’io una volta sono stato negro, quando ero povero”.
Non è razzista Pippi Cazelunghe: è solo una figlia del suo tempo che usava parole del suo tempo.
Il suo messaggio è un ideale di libertà, di creatività, di fantasia, di equilibrio, di autonomia, di felicità. Questi sono i messaggi che rimarranno impressi in un bambino, davanti alla lettura del romanzo di Astrid Lindgren. Lasciamo liberi i bambini di leggere ed entusiasmarsi. All’antirazzismo accompagniamoli invece noi, dolcemente, applicando nella nostra pratica quotidiana di genitori la vera accoglienza, l’empatia, l’altruismo, l’ascolto.
Secondo la dottrina americana del “politically correct” (mai apertamente enunciata ma ferocemente applicata) tutto deve essere “politicamente corretto”: dai comportamenti sessuali ai gusti letterari, al modo di parlare, di vestirsi, di scrivere. Esisterebbe dunque un modo “giusto” di fare le cose. Ma questo è il mondo degli ipocriti
Negli USA “nigger” è spregiativo, è parola di derivazione latina che indica con disprezzo gli schiavi portati dall’Africa a lavorare nelle piantagioni del Sud. L’inglese, per dire “nero/negro”, ha due termini, uno (black) di radice sassone e uno (nigger) di radice latina (e per i razzisti latini e cattolici sono esseri inferiori tanto quanto afroamericani, latinos e asiatici).
In Italia il problema della doppia radice non c’è, nero e negro hanno la stessa radice e non c’è ragione per cui un termine sia corretto e l’altro scorretto.
Ma in Italia diciamo “nero”, scimmiottando gli americani, per mettere a posto la coscienza. “Nero” sarebbe nient’altro che un mezzuccio per scansare l’accusa di razzismo, salvo poi fregarsene se i neri continuano a essere poveri, sfruttati, emarginati, picchiati, insultati.
Poi è arrivato Jimi Hendrix a insegnare che la migliore risposta all’idiozia razzista è appropriarsi delle loro parole: “I wanna be a nigger!”
Anche il mondo cattolico è sceso in campo per sostenere la tesi che “negro” è legittimo, anche se lo fa da un punto di vista principalmente storico semantico. La rivista “Letture” dei Paolini critica la scomparsa della parola incriminata, da qualche anno sostituita con “nero”.
C’è un libro di Robert Hughes, “La cultura del piagnisteo”, che mette alla berlina in modo efficace la mania del politicamente corretto, ovvero quell’abitudine di fare ricorso a eufemismi per evitare di usare termini che di offensivo non hanno proprio niente.
Diversamente bianco va meglio?
Il mondo è forse reso migliore da queste ipocrisie? No, è solo più ipocrita e sprovveduto.
Ben venga “negro”, se serve a combattere l’ipocrisia.
E continui tranquillamente Pippi Calzelunghe a giocare con i suoi negretti.
Silvano Console