In Italia c’era una volta “Tribuna politica”. C’erano Jader Jacobelli, Gianni Granzotto, Giorgio Vecchietti, Ugo Zatterin. Oggi ci sono i talk show, in cui i politici hanno tanto più successo. Ma noi rimpiangiamo le Tribune di una volta, rimpiangiamo Jader e la sua RAI. Rimpiangiamo la sua conduzione equilibrata, il suo stile e il suo garbo con la elegante erre moscia.
Scriveva: «Il servizio pubblico deve entrare nelle case degli italiani con educazione, togliendosi le scarpe”. E questo suo impegno gli permise di portare avanti l’incarico per ventidue anni, e la sua era una battaglia costante per la correttezza dell’informazione e l’imparzialità».
Bei tempi! Una volta c’erano le regole: la domanda e la risposta, i giornalisti da una parte, i politici dall’altra. Il timing ben definito per ciascuno. Le interruzioni? Sono una invenzione della televisione moderna. Allora il moderatore, imparziale e corretto, assicurava la correttezza della contesa.
Era la figura principale quella del “moderatore”, che, come dice la parola, dava il “modus”, cioè lo stile con cui il personaggio della politica doveva confrontarsi con i giornalisti presenti in studio.
Oggi invece il moderatore migliore, il più apprezzato, è quello che è capace di attivare l’ascolto, trasformando lo studio in un arena. Più si urla, s’insulta, si aggredisce, più è bravo il moderatore.
Non potrebbe mai tornare uno Jacobelli.
Diceva: «Chi sta alla Rai si deve comportare come il cassiere di una banca: maneggia molto denaro ma tiene sempre presente che quelle banconote non gli appartengono».
Oppure: «La televisione deve entrare nelle case degli italiani con grande rispetto, come il fedele che entra nella moschea togliendosi le scarpe».
Non si può tornare indietro. Anzi – direbbe Flaiano – coraggio! “Il meglio è passato”. Il peggio è ancora da venire.
In questa società dello spettacolo in cui è obbligo – per l’audience soprattutto e quindi per i ricavi pubblicitari – “divertirsi da morire”, non interessa più io confronto delle idee e dei progetti rispetto ad una gara all’ultimo sangue tra chi se la cava meglio in termini di furbizia e di immagine, che è quella che cattura purtroppo il consenso popolare.
Audience fa sempre meno rima con qualità.
In “Cento no alla tv” edito da Laterza nel ’96, Jader Jacobelli ribadiva che non e’ tanto l’uso che si fa della tv a renderla pericolosa, quanto “la sua stessa natura di mezzo troppo potente rinchiuso tra le quattro mura domestiche. Bisogna quindi usarla con parsimonia e equilibrio”.
Oggi, nel complessivo crollo etico, estetico, culturale e morale, che accompagnano quello economico, la televisione in Italia ha assunto ormai un ruolo egemone fondamentale, con le caratteristiche che qualcuno ha appropriatamente definito di tv spazzatura. In quest’ambito si collocano i talk show.
Un anglicismo – ormai è d’obbligo nell’uso televisivo- che sta per spettacolo di conversazione o programma di parole). E non si tratta solo di politica. Ormai si è invitati a discorrere di qualsiasi argomento: la vita privata, le disgrazie, le esperienze personali e sentimentali, sport ed eventi di qualsiasi genere.
È sempre più raro trovare qualcuno che, davanti a una trasmissione televisiva, ogni volta che i partecipanti si parlano addosso, reagisce con: «Ma perché s’interrompono a vicenda? Non si capisce quello che dicono! Non potrebbero parlare a turno?»
La verità è che gli spettatori dei talk show godono solo quando la gente litiga, e non importa tanto quel che dicono.
Si assiste a un programma di epiteti, più o meno signorili o apertamente volgari, come a una sessione di wrestling, dove non importa se i contendenti facciano finta, perché fanno parte tutti dello stesso show, da cui ricavare successo e poltrone, e quindi danaro. I litigi nei talk show sono il peggior servizio alla politica.
E anche nel linguaggio televisivo non mancano le novità.
Una serie di parole semplici diventano sempre più rare nell’uso politico, a vantaggio di un lessico sempre più apparentemente complesso e anglofono.
È notevole per esempio il fatto che sia in disuso crescente il termine “problema”, sostituito con quello, che appare più sfumato e strutturato, di “problematica”.
La preferenza per le parole lunghe al posto di equivalenti più brevi, delle parole astratte in sostituzione di quelle concrete, è tipica degli usi burocratici della lingua. E così avviene nella lingua comune della politica e di chi la commenta.
Italo Calvino parlava di “antilingua” – la langue de bois (“lingua di legno”) secondo una denominazione francese – che si manifesta negli usi linguistici di politici, amministratori, sindacalisti, burocrati. Utilizzando formule sempre più generiche, anonime, astratte, parlano di problematiche, tematiche, tipologie, modalità; e sempre meno di problemi, temi, tipi e modi. Si preferisce posizionare e non porre, erogare e non fornire, recarsi e non andare.
Una parola molto comune è sempre più utilizzata nel linguaggio politico. Fa riferimento ad un oggetto di uso comune, sostanzialmente domestico. È la parola tavolo.
Ormai tutti sono diventati falegnami della politica, anche se sanno fabbricare ben poco. È normale e usuale promettere l’apertura di tavoli. Per ogni problematica è opportuno, come prima scelta, attrezzare (è il verbo più adatto) un tavolo. Anche se poi le vere scelte sono fatte – come si dice anche – a tavolino. Come le candidature per ogni elezione, sempre più decise a dispetto del coinvolgimento dei più, e quindi della democrazia.
Comunque, soprattutto quando non si sa che fare di altro e più concreto, si propone di “aprire un tavolo”. Il tavolo rappresenta in buona sostanza un incontro per trattative o dibattiti: E qualcuno lo definisce meglio: aprire un tavolo di discussione su qualche tema o problema.
Il Governo (nazionale, regionale o locale) in particolare usa aprire molti tavoli, anche perché questo comprende la necessità di avere anche tante sedie in più. Perché attorno a un tavolo non si sta mica in piedi. E, meglio delle sedie, le poltrone. Per politici, esperti e consulenti. Siamo diventati un Paese di falegnami, costruttori di tavoli e di poltrone.
Questo linguaggio simbolico nasconde l’impotenza politica, punto e basta.
E così si continua ad ascoltare decine di annunci e proclami sull’apertura di tavoli su tavoli, con le facce compiaciute di chi crede di aver comunicato di “aver fatto qualcosa”.
Silvano Console