Intervista a Tiziana Luciani
Tiziana Luciani, psicoterapeuta e scrittrice, abita a Perugia ma per lavoro viaggia spesso. Tiziana ed io ci conosciamo da molti anni ed in lei ho sempre apprezzato il rigore e la dolcezza con le quali affronta gli “accadere” nella vita come nel lavoro.
Ora Tiziana ha dato alle stampe un magnifico libro “E corrono ancora. Storie italiane di donne selvagge” uscito presso l’editore Frassinelli. Ho incontrato la scrittrice per un’intervista.
Il tuo libro E corrono ancora è un libro plurale mi pare. Plurale nel senso che dà voce ad una pluralità selvaggia al femminile che a volte diventa addirittura corale. Tuttavia a mio parere non è un libro femminista, ma un libro femminile. Ho torto?
Ho partecipato, a suo tempo, alle imprese del movimento femminista italiano, e per me “femminista” non è parola da cui prendere le distanze, ma una parte tenera e forte della mia formazione di ragazza e di donna. Nel contempo, mi sembra bello definire il libro “femminile” ….
Sento, grazie a quelle lontane esperienze, e a tanto altro della vita, la “benedizione di essere donna”.
“E corrono ancora” è come un coro, in cui a volte si distinguono e si distaccano voci soliste, e il coro per un po’ canta muto, e attende che ogni singola donna possa intonare il suo canto, breve o lungo che sia.
Tali sono i numerosi racconti di esperienze di vita vissuta, felice o funesta, presenti nel libro.
Intendo femminile nel senso che tu dai voce, citando da libri famosi o da colloqui fruttuosi, a quel continente incomprensibile (le donne) di cui parlava Lacan e di cui ne continuano a parlare i freudiani dove da sempre, il femminile fa questione, ma pone solo interrogativi senza cercare di risolverli.
Poneva questioni, senza cercare di risolverle, la Sfinge di Edipo… A me sembra che tante ragazze e donne cerchino di dialogare con l’altra parte, con i ragazzi, con gli uomini, e che questo dialogo sia complicato dalla maggiore facilità che il femminile ha nell’accesso a sentimenti ed emozioni, e dalla minore pratica che il maschile ha di questi mondi sfumati. La nettezza e la geometricità del maschile e la vaghezza e la complessità del femminile, quando si unilateralizzano, divengono mute come Sfingi, e finiscono per porsi reciprocamente enigmi e indovinelli.
Qual è la differenza tra il” mondo” e il mondo delle donne che tu nel libro chiami” fatto a mano”?
In un epoca digitale che tutto attiva e comanda in punta di dita, il libro “E corrono ancora” propone in ogni suo capitolo attività espressive che coinvolgono le mani nel loro insieme. Il mondo delle donne è un “mondo fatto a mano”, nella nostra memoria arcaica, lontana, sopita, c’è un approccio fattivo con
l’ esistenza, un saper fare. Anche se siamo negate, all’occorrenza, come si dice…in caso di bisogno,
ce la caviamo. Le nostre nonne o bisnonne, sapevano fare di tutto e possedevano un sapere artigiano. Nel libro ripropongo queste competenze in chiave auto-terapeutica. Mi spiego: un dolore fisico o psichico, una difficoltà, un blocco, possono incominciare a trovare sbocco se vengono, rappresentati con colori, collage, assemblage, con testi evocativi, modellando materiali malleabili, come creta o acqua e farina….
Farne qualcosa del nostro disagio ci fa stare meglio e ci fa percepire la difficoltà come un qualcosa di raccontabile, di umanizzabile. Anche il nostro mondo interno può essere fatto a mano, diventando più u-mano!
Leggendo il tuo libro a volte mi è capitato di piangere di gioia o di nostalgia. Ho pensato a letture importanti nella mia vita che tu citi perché ti somigliano. Ma ho anche pensato a Stabat Mater di Julia Kristeva, a Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes ma soprattutto a Luce Irigaray da Speculum (contro Freud) a Amo a te dove il parlare non è mai neutro.
Sicuramente Frammenti di un discorso amoroso è stato ed è tuttora un libro molto importante per me, ed citato nel testo. Chiunque viva la condizione del mal d’amore può leggerlo e trovare conforto. Come?
Non con le risposte facili e rassicuranti di una certa manualistica-cerotto, che si propone di tamponare un’esperienza spiazzante e dolorosa negandola o infiocchettandola, ma con quella meravigliosa medicina per il cuore che è l’amplificazione, parola che, al solo pronunciarla, apre il respiro.
Il mio dolor d’amore, privatissimo, perché lui o lei non corrisponde al mio sentimento, nell’amplificazione si collega alla comune umanità, alle parole scritte da poeti e poetesse, innamorati/e a loro volta, a immagini, musiche, ragionamenti, frammenti, appunto, che rispecchiano la frammentarietà in cui si trova il cuore mio che, come si dice, è a pezzi, ma anche la ricchezza multipla di ciò che mi sta accadendo. Quando a qualsiasi età ci si ri-ammala d’amore ci si ri-adolescentizza, si rileggono e scrivono poesie, per esempio. Barthes, con il suo libro, ci ha donato l’amplificazione, che è strumento della psicoanalisi, ma anche risorsa umana per tutti/e.
Il fatto che il tuo parlare, quindi il raccontare non sia mai neutro ma sempre cosciente del genere, mi fa ricordare quello che Rimbaud, la cocaina della mia giovinezza, diceva delle donne: La donna sarà anch’essa poeta quando cesserà la sua schiavitù senza fine, quando avrà riconquistato per sé la propria esistenza (nel momento in cui l’uomo, che è stato fino ad allora ignobile nei suoi riguardi, la lascerà libera).
La coscienza del genere al quale apparteniamo è l’inizio della formazione della nostra identità.
Nel libro spesso si declinano al femminile e/o al maschile le parole, ma la non neutralità del testo va aldilà di queste accortezze linguistiche.
Il libro, che delle donne ripercorre le tappe e gli snodi più importanti della vita, è pieno di presenze maschili e del maschile. E come potrebbe essere altrimenti? Ci sono testi di poeti, vite di artisti, poesie di ragazzi adolescenti innamorati, storie di padri, c’è mio padre, i miei fratelli, mio marito, gli amori della mia vita e delle vite di tante altre donne. A proposito di padri, si cita l’affetto di André Breton per sua figlia, la piccola Aube, alla quale augura per il futuro, di essere “follemente amata”.
So che degli uomini lo hanno letto, o lo stanno leggendo, trovando possibili risposte a dubbi o difficoltà che hanno nel rapportarsi col mondo femminile, stupendosi di aspetti a loro meno noti, commuovendosi per le storie che le donne nel libro raccontano. So di uomini particolarmente sensibili che hanno con estrema difficoltà letto il capitolo “Orchi e Barbablù” che tratta di abusi su minori, di violenza sulle donne e di femminicidio, e che una volta letto si sono sentiti più forti e più profondi. Tutto quello che può servirci, uomini e donne, a comprenderci meglio, è utile, perché fa uno spazio in mezzo fra l’uno e l’altro genere, dove l’incontro sia possibile e sereno.
La tua esperienza di psicoterapeuta mi pare, attraverso questo libro, riveli una natura assolutamente estranea ai divani freudiani o alle avventure archetipiche junghiane. Questo libro mi fa pensare, parafrasando Angelo Maria Ripellino, alla psicoterapia (cioè la cura dell’anima) come itinerario nel meraviglioso…
Nel testo si citano: Jung, Neumann, von Franz, Kast, Hillman, la stessa Pinkola Estés, e questo testimonia della mia formazione e del mio orientamento junghiano. Ma mi piace molto la definizione di psicoterapia come itinerario nel meraviglioso. Ricordiamoci però che il meraviglioso confina con il sublime, e il sublime con il terrifico. Nell’ ascoltare un/una paziente sono sempre colpita dalla meraviglia della natura umana, dalla sua preziosità unicità e fragilità ma anche da quali oscure e terrificanti esperienze essa debba vivere e sopportare, e quali mondi interni, freddi e alieni, ci abitino dentro. A tutto questo ci dobbiamo avvicinare con rispetto, perché come diceva il testo di una vecchia canzone del cantautore italiano Lucio Battisti.
“Nel mio cuor e nell’anima c’è un prato verde
che mai nessuno ha mai calpestato, nessuno,
se tu vorrai conoscerlo cammina piano
perché nel mio silenzio
anche un sorriso può fare un rumore.”
Spesso per quella persona siamo l’unico ponte reale proteso verso gli altri, l’unico attraversabile a piccoli, timorosi passi, con tentennamenti, fughe in avanti, corse spaventate all’indietro.
Il triangolo simbolico materno donna bambino seno si ripropone nel tuo libro attraverso il corpo materno in relazione con gli elementi tellurici. Manca una relazione celeste alla Grande madre?
Il lato celeste è, in particolare, nella lunga parte nella quale si parla di Maria.
Aldilà del fatto che si sia credenti o no, la figura di Maria è molto importante per noi donne.
In “E corrono ancora” si parte dalla necessità di farla uscire dal silenzio annuente, in cui l’ha storicamente relegata un certo cattolicesimo e si riscopre la sua parte umana e corporea e quindi il suo lato celeste. Quando Maria si umanizza, l’umanità si sacralizza. Nel testo sono descritte con precisione tante rappresentazioni della Maria Lactans, la madre che allatta il bambino Gesù. Ed è riportato un laboratorio in cui si realizzano dei trittici a lei dedicati, con immagini figurative, colorate o assemblate, realizzate dalle partecipanti, che a fine incontro le dedicano delle personalissime preghiere. Ho fatto più volte esperienza di questo tipo di laboratorio ed è emotivamente molto forte, è lo spirituale delle donne, territorio, a mio avviso, ancora poco battuto e conosciuto.
La funzione del workshop o del laboratorio nella tua “cura”.
Nei dieci capitoli che strutturano il libro, sono disseminati paragrafi specifici contraddistinti da un logo che invitano a realizzare, da sole o con amiche o in un gruppo più vasto, delle attività di workshop. Attività pratiche, espressive che spaziano dal disegno alla pittura, dalla composizione di testi, alla costruzione di assemblage. Penso che l’espressione creativa ci regali uno spazio in cui poter conoscere parti di noi, dove sperimentare trasformazioni che nella vita di tutti i giorni ancora non sono attuabili, come in una zona franca del nostro essere. Fare qualcosa di creativo del nostro mondo interno ce ne fa intuire la bellezza intrinseca, nonostante la bruttezza del momento che viviamo.
Uscendo per un attimo dall’oscurità dove mi trovo in compagnia di “ombre opalescenti” mi viene di chiederti se per te l’apparente assenza di Dio non sia poi qualcosa di talmente concreto e pesante da farsi o divenire presenza. Si rivela Dio nel suo silenzio?
Restando a ciò che propone il libro, penso che Dio vi sia presente nella ricerca della Bellezza, nel valore fondante attribuito al passato, nella speranza per il presente, nella curiosità per il futuro, nella fiducia, sempre e comunque, riposta nella umanità.
Cosa questa che, nei nostri tempi oscuri, richiede grande fermezza e il coraggio, tutto umano, per il quale Dio dall’alto certamente fa il tifo, di contrapporre la vita alla morte.
Ultima domanda. Quali sono le tracce gli appunti per un tuo prossimo libro?
Per ora prendo appunti su un tema che mi appassiona molto.
Le connessioni intergenerazionali, ovvero come le vite di bisnonne/i, nonne/e e genitori si riverberino nella vita presente di ciascuna/o di noi, con le loro scelte, con ciò che hanno realizzato, ma anche con ciò che è rimasto in potenza, nascosto, non espresso e che i noi diventa vocazione, appuntamento, strada maestra. Una sorta di albero genealogico dei destini, anzi di quello che Italo Calvino nella prefazione alle Fiabe italiane, da lui curate, definì meravigliosamente “il farsi di un destino”.
Intervista a cura di Guido Zeccola