Tra qualche giorno ci sarà il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Questo è il quesito sulla scheda:
“Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana – Serie generale – n. 240 del 12 ottobre 2019?”
Chi risponde Sì approverà la riduzione di circa un terzo dei parlamentari, chi risponde No la rifiuterà. Fine della parte facile. Passiamo ora a quella difficile: cosa votare e perché? Alcuni di noi avranno già le idee chiare: c’è chi ha deciso di votare Sì per “dare una lezione alla casta” e c’è chi ha deciso di votare No per “difendere la Costituzione più bella del mondo”. Nel mezzo ci sono come sempre mille sfumature. Questo articolo intende esplorare il labirinto di idee che si trova in questa terra di mezzo.
All’ingresso del labirinto troviamo una data: 8 ottobre 2019. Quel giorno la Camera approva la riforma con 553 voti favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti. Era la quarta e ultima lettura della legge presentata da tre senatori (Calderoli, Patuanelli e Quagliariello) e da quel momento la riforma può diventare legge. Ci sono però tre mesi di tempo per presentare la richiesta di un referendum confermativo della riforma approvata dal Parlamento. Il 20 gennaio 2020, 71 senatori di diversi schieramenti presentano la richiesta – che viene accolta – e il referendum è indetto per il 29 marzo 2020. Poi, causa Covid, il referendum sarà posticipato a settembre.
Perché dovremmo cambiare il numero dei parlamentari? Per rispondere a questa è utile rispondere ad un’altra domanda prima: che cos’è una Costituzione? Non è semplicemente un elenco di norme che definiscono e limitano le forme del potere dello Stato, ma è anche una cornice nella quale matura una visione per il paese, che indirizza ed accompagna il suo sviluppo in un particolare contesto storico. La Costituzione si può cambiare – o meglio rivedere, ma non rivoluzionare – allo scopo di rimettere a fuoco il particolare contesto storico, consentendo di agire nel presente con modalità diverse da quelle usate precedentemente, se ritenuto opportuno.
Secondo alcuni, il contesto storico è cambiato ed è opportuno rivedere la Costituzione. Ma quando e in che senso esattamente è cambiato il contesto storico? È una lunga storia che inizia alla fine degli anni Settanta con Berlinguer e Moro e che dura fino ad oggi. Per farla breve, da quando è venuta meno la conventio ad excludendum che impediva al PCI di entrare al governo non solo si è aperta la possibilità teorica di un’alternanza di governo, ma si è anche aperta la possibilità di attuare “grandi” revisioni costituzionali con il consenso necessario nel Parlamento e nel Paese. La fine della guerra fredda, il crollo dell’URSS, la formazione dell’Unione Europea e altre cosette ancora hanno contribuito a determinare quello che prima abbiamo riassunto dicendo: “è cambiato il contesto storico”. Il lavoro di aggiornamento della Costituzione c’è sempre stato (si contano almeno 150 piccoli progetti di riforma), ma solo dagli anni Ottanta si comincia a pensare a revisioni più generali, le cosiddette “grandi riforme”. Se ne contano ben nove, tutte fermatesi per una ragione o per l’altra (ma essenzialmente perché grandi riforme richiedono grandi consensi). Questo ha suggerito ad alcuni che forse è meglio procedere con una serie di “piccole riforme”, e quella che stiamo per votare è una di queste.
Questa riforma riguarda solo il numero di parlamentari e prevede di passare da 630 a 400 deputati alla Camera, e da 315 a 200 al Senato. Non è la prima volta che il numero dei parlamentari viene cambiato: tra il 1948 e il 1963 il numero era fissato in rapporto alla popolazione (1 deputato ogni 80.000 abitanti e 1 senatore ogni 200.000 abitanti) e solo dopo il 1963 è stato fissato a 630 deputati e 315 senatori. Può anche essere utile ricordare che le proposte fatte alla Costituente prevedevano, in un caso, 1 deputato ogni 100.000 abitanti, in un altro caso, 1 deputato ogni 150.000 abitanti. Per i senatori le proposte furono di 1 ogni 250.000, 1 ogni 120.000 e 1 ogni 150.000. Alla fine dei conti si capisce che non c’è nulla di magiconei numeri 630 e 315. Non sono né troppo pochi, né troppi. Sono quelli che ad un certo punto della Storia il dibattito politico ha ritenuto necessario avere per rappresentare i cittadini, e li ha anche ritenuti sufficienti per gestire in maniera coerente i processi che la Politica è chiamata a regolare. Questi numeri da soli ci dicono poco, vanno comunque contestualizzati all’interno delle Istituzioni presenti e delle loro funzioni. Possiamo allora chiederci come sono cambiate le Istituzioni che ci rappresentano, rispetto a quelle esistenti nel 1948, e come si sono diversificati gli attori che possono proporre e/o approvare le leggi. Sono due essenzialmente le “novità” principali: le Regioni operanti dal 1970 (che legiferano sulle questioni di loro competenza) e il Parlamento dell’Unione Europea (che assieme al Consiglio Europeo può approvare le leggi proposte dalla Commissione Europea). Lascio però a voi decidere se la presenza delle Regioni e del Parlamento Europeo siano ragioni sufficienti o meno per ritoccare il numero dei parlamentari italiani.
Una delle motivazioni addotte per rivedere il numero dei parlamentari (in questa ma anche in altre riforme) è rendere il lavoro del Parlamento più efficiente. I sostenitori del Sì sono pronti a giurare che ridurre il numero di parlamentari migliorerà l’efficienza del loro lavoro, quelli del No chiaramente sono pronti a giurare il contrario. Difficile capire chi ha ragione e chi ha torto. Possiamo però provare a capire come è distribuito il lavoro alle camere tra i vari parlamentari. A questo riguardo il sito Open Polis ha qualche tempo fa elaborato un’interessante analisi che vi invito a leggere a questo link: https://www.openpolis.it/esercizi/a-dare-le-carte-sono-in-pochi/. In sintesi, si vede che i ruoli attivi e rilevanti sono giocati da una minoranza di parlamentari, mentre una maggioranza di essi partecipa più passivamente. Se è opinabile ritenere che ridurre il numero dei parlamentari permetterà di distribuire meglio il loro lavoro e migliorare la qualità di quest’ultimo, è però anche ovvio che il funzionamento del Parlamento non dipende solo dal numero dei parlamentari. Un aspetto molto importante riguarda infatti il contesto in cui poter inserire questa “piccola riforma”. Anche le “grandi riforme” precedenti riducevano il numero dei parlamentari, ma all’interno di un contesto ben definito. Per molte di esse lo scopo era rendere più efficiente il Parlamento modificando il bicameralismo (im)perfetto che vincola fortemente l’operato di Camera e Senato: in alcuni casi differenziandoli nelle funzioni e allo stesso tempo modificando la loro consistenza numerica. Un’altro aspetto importante che motivava queste riforme era la stabilità di governo: in media i governi dell’Italia repubblicana sono durati un anno e due mesi (per fare un confronto, in Germania i governi sono durati in media tre volte di più e i cancellieri tipicamente sono stati alla guida dei loro governi per 8 anni). Per provare ad agire su questi aspetti occorreva integrare diverse modifiche in maniera coerente. L’approccio delle “grandi riforme” sembra sicuramente ben motivato, ma negli ultimi quarant’anni ben nove “grandi riforme” non sono riuscite ad ottenere i grandi consensi di cui necessitano. Può darsi che il decimo tentativo sarà quello fortunato, ma potrebbe anche darsi che forse dobbiamo accontentarci di fare dei piccoli passi un poco alla volta.
Siamo sicuri che anche una piccola modifica non possa creare un danno enorme? Su questo gli esperti si dividono: trovate luminari (ad esempio Massimo Villone e Sabino Cassese) che spiegano perché questa riforma contribuirà a danneggiare la nostra democrazia; altri esperti di pari rango (ad esempio Valerio Onida e Ugo de Siervo) sostengono l’esatto contrario dicendo che non farà grossi danni di per sé e, opportunamente integrata con piccoli accorgimenti, potrebbe essere il primo passo verso un virtuoso percorso di riforme incrementali. Altri ancora, come Gustavo Zagrebelsky, più umilmente ammettono tutti i loro dubbi su quello che sia giusto fare.
Concludo con una considerazione per gli Italiani all’estero: questa riforma, se venisse approvata, ridurrà i parlamentari eletti all’estero da 18 a 12. Gli Italiani all’estero sono parecchi milioni, distribuiti su territori molto ampi, e sono diversi anni che il loro numero sta aumentando. Come molti di noi sanno è importante che gli Italiani all’estero abbiano la possibilità di essere rappresentati “con disciplina ed onore” da chi conosca le loro problematiche. Cosa che è concretamente possibile solo dal 2006. Lascio a voi giudicare se la riduzione del numero dei rappresentanti sia una ragione sufficiente a dire No a questa riforma. Il discorso di nuovo è reso complicato dal fatto che il numero dei rappresentanti forse è il fattore meno rilevante – per quanto non trascurabile – nel più ampio discorso sugli italiani all’estero. Per dare effettiva rappresentanza alle comunità di italiani all’estero occorrerebbe capirne meglio caratteristiche e necessità, che di certo sono cambiate molto negli ultimi decenni. Occorrerebbe avere una visione di come esse possano fare da ponte tra l’Italia e il resto del mondo. Occorrerebbe avere chiaro perché è importante tenere saldi i legami con il paese di origine e dare alla cittadinanza italiana un valore prezioso ovunque la si porti. Ma questi aspetti non li possono promuovere né 18 né tantomeno 12 parlamentari da soli. Occorre che ci sia un ampio discorso condiviso tra gli italiani all’estero e quelli in patria. Chi è arrivato a leggere fin qui, in parte, ha già contribuito ad alimentare un poco questo discorso, qualunque cosa voti al referendum.
Potrei finire elencando brevemente le – deboli – ragioni del Sì e del No. Le potete trovare però facilmente su tanti giornali. Preferisco concludere invece con due – forti – ragioni del Ni: voto Sì perché spero che queste riforma sia l’inizio di una processo di cambiamento progressivo e coerente, nell’interesse di tutto il Paese; voto No perché spero che si attuerà presto un altro processo di cambiamento più generale, nell’interesse di tutto il Paese.
Silvano Garnerone