Nadia Scapoli dallo champagne alla skumpa

Nadia Scapoli è fotografa e pittrice. Nadia è di Ferrara ma abita a Göteborg ormai da diversi anni. 
Nadia tu sei italiana ma abiti in Svezia da molti anni. Ci racconti perchè hai scelto la Svezia e da quanto tempo? 
Mi ricordo che acquistai un biglietto di sola andata Milano-Berlino-Stoccolma nel 1983. 
 

Lo conservo ancora. Sono venuta qua a causa di un episodio molto strano anzi straordinario. Sono nata a Ferrara nella parte medioevale della città. Cercavo di studiare all’università dando esami di tanto in tanto, ma le attività più importanti per me erano quelle di dormire fino alle 2 del pomeriggio, leggere Schopenhauer, Kant e Nietzsche. Avevo cominciato a fare fotografie e poi, come tutti alla mia età incontravo amici. Ma un giorno incontrai un ragazzo incredibilmente biondo, con dei cavatappi enormi che arrancava sulla sua vecchia bici.

Credo di essere una fotografa che vuole trasformare la realtà

Fu un colpo di fulmine. Chi era quella persona? Una settimana dopo lo rividi all’università. Era l’uomo, l’essere umano più affascinante che avessi mai incontrato. Un attore svedese che si era trasferito nella mia città per lavorare in un gruppo teatrale. Avevamo difficoltà a comunicare, lui sapeva solo qualche parola di italiano ed io potevo soltanto parlare in francese.  Fu così che la storia cominciò.

Tu sei una fotografa che, a mio giudizio, sa mescolare fantasia e realismo nelle sue opere. Ti domando hai già un progetto preciso in mente quando lavori ad un soggetto oppure lasci che sia il caso a guidarti? 
Credo di essere una fotografa che vuole trasformare la realtà. All’inizio volevo diventare reporter. No, non ho mai una idea veramente precisa quando comincio a lavorare, ma poi, quando veramente voglio “vedere” qualcosa allora comincio a sviluppare l’idea. Si tratta di lavorare senza aspettative particolari. Non è possibile creare qualcosa di fantastico a tavolino. Ero a Palermo, la giornata era caldissima, decisi di andare in bicicletta fino alla spiaggia per fare un bagno. Era la prima volta che ero là e non conoscevo il posto. Dopo una pedalata di circa mezz’ora arrivai ad un porticciolo dove c’erano vecchie barche da pesca che ancora non erano state messe in mare. Un uomo dipingeva una delle barche. Mi fermai ad osservare ed il mio sguardo si concentrò sul fondo delle barche. I colori erano fantastici e le forme quasi astratte.  Le foto che scattai somigliavano ad immagini spaziali. 
Per me fotografare è un gioco. Le mie due macchine fotografiche e Photoshop sono i miei giocattoli. Prima che iniziasse l’era del digitale, quando utilizzavo delle pellicole normali, avevo comunque un modo tutto mio di manipolate le immagini. A volte dipingevo direttamente sulle immagini, le raggruppavo in diapositive operando sui minimi dettagli come se fossi una regista. Oppure soffiavo sull’obiettivo per rendere il mondo più morbido. 

Parlami del tuo progetto di lavoro sui volti
Ricordo di aver visto una volta al Världskulturmuseet di Göteborg una mostra sul woodoo. Scattai la foto di una coppia straordinaria, un uomo-diavolo e una regina che sembrava una bambola. Poi senza sapere perché, senza rifletterci, sostituii il volto della donna con il mio. 
Da li partì la serie di fotografie che ho chiamato “Art Connection.” Rielaboravo dipinti famosi e meno famosi fino a renderli quasi irriconoscibili. Non tutti perché alcuni si possono facilmente riconoscere. Sinceramente non so se la cosa abbia un vero valore e forse non  è nemmeno così originale. Ma è qualcosa che mi tiene occupata per giorni e giorni, dove perdo ogni cognizione  dello spazio e del tempo. Se poi il tutto risulta in una bella immagine allora sono contenta. 

Quindi utilizzi anche la pittura.
Disegno piccole figure con la matita ed ho sempre una gigantesca gomme per cancellare vicino a me. Mi è  anche capitato di dipingere su tela ma è una cosa molto faticosa. 
Questa maniera di dipingere iniziò quando frequentai un corso di buddismo e ascoltai attentamente un monaco tedesco che era spesso a Göteborg. Lui mi ispirava così tanto che ogni sera, prima di andare a dormire, disegnavo qualcosa sul retro delle mie carte da visita. Sempre lo stesso motivo: una donna. La donna con diverse variazioni sul tema, a seconda di ciò che mi ispirava maggiormente in quel momento. 

Mi pare tu abbia partecipato a diverse mostre. Quale la più importante e perché? 
La più importante è sempre la prima. Il materiale era tutto in bianco e nero e totalmente  surrealista. Ricordo che sviluppai le fotografie nel mio bagno che a volte aveva la funzione di camera oscura. Avevo imparato a sviluppare le foto da un libro, era tutto artigianale allora. In seguito, molti anni dopo, fui invitata a presentare le mie opere alla Kulturhuset di Stockholm. Fu molto importante perché ebbi una borsa di studio, uno sponsor e i critici scrissero recensioni lusinghiere. La mostra si chiamava Gateways (porte, vie d’uscita). 
Sempre lo stesso desiderio di andare da qualche parte, di scoprire segreti. Un critico parlò di atmosfere da pelle d’oca e di toni surreali, tra Kafka e Magritte. Ha ha ha, che fantastico miscuglio! 

Hai ancora dei contatti, artistici intendo, con l’Italia?
No. A parte con un ragazzo che conosco da tanto tempo. Eravamo in tre e tutti e tre amavamo la fotografia. Uno è diventato pianista e l’altro ha una mostra in questi giorni. 

Progetti fotografici per il futuro?
Sì. Ma ho anche scritto delle novelle. Ogni novella o racconto breve è legato ad un’immagine. Un altro progetto è una mostra della mia serie ”Art Connection”,  a Manchester all’inizio dell’anno prossimo

Se tu dovessi trovare una differenza tra  il fare arte in Italia e il farlo in Svezia?
Le differenze sono estreme secondo me. Solo un esempio. In una mostra a cui ho partecipato in Italia c’erano alcune coppe di champagne con del vero champagne. Qui in Svezia avrebbero utilizzato un liquido che si chiama Skumpa. Per il resto preferisco di più guardare vecchi film che visitare le mostre.

Intervista a cura di Guido Zeccola