Nell’ambito della rassegna Settimana della lingua italiana nel mondo giunta al suo sedicesimo anno ho incontrato lo scrittore, ricercatore e giornalista Antonio Scurati. Antonio Scurati nasce nel 1969 a Napoli ma quasi subito si trasferisce a Venezia e poi a Milano dove vive e lavora. Scurati ha scritto numerosi saggi tra i quali ricordiamo [continua dopo l’immagine]
“Guerra”,“Televisioni di guerra”, ed i romanzi: “Il rumore sordo della battaglia”, “Il sopravvissuto”, con il quale ha vinto un Campiello, “Una storia romantica”, “Il bambino che sognava la fine del mondo” ed ora “Il Padre infedele”.
Leggendo i suoi libri viene facile porsi la domanda: perché le interessa tanto la guerra?
-Perché la guerra è una cosa non presente nella nostra vita, ma non per questo è assente. Il mio primo libro che è del 2002, “Il rumore sordo della battaglia”, è ambientato durante il Rinascimento italiano dove però non menziono in 600 pagine una sola volta il nome di un solo artista. È la storia del sopravvento della polvere da sparo nelle battaglie. Quindi là dove finisce l’epoca medievale e cavalleresca, comincia la modernità, l’epoca della morte universale ed individuale.
Io appartengo ad una generazione che ha vissuto durante il più lungo periodo di pace che l’Europa abbia mai conosciuto. A parte la Jugoslavia.
Accanto a questo, lo sviluppo delle tecnologie ci ha trasformati in spettatori. Per la prima volta nella storia dell’umanità abbiamo assistito (come per l’Iraq del 1991) alla guerra in diretta. Comodi spettatori seduti sul divano di casa. Abbiamo assistito alla spettacolarizzazione dell’avvenimento. E continuiamo ad assistere a tutto questo, prima di tutto grazie alla televisione e poi all’internet.
È la testimonianza di un’ “inesperienza della guerra” come la chiamo io, cioè la guerra come paradigma di un’esperienza deprivata della vita vissuta.
Tuttavia è vero che ormai da 70 anni (sempre a parte la Jugoslavia) non abbiamo avuto guerre in Europa, non c’è stato spargimento di sangue, terrorismo a parte. Ma è altrettanto vero che questo omicidio non più perpetuato contro il corpo sul campo di battaglia, ha cominciato ad uccidere le nostre anime, la nostra mente. Come diceva Baudrillard, la postmodernità ha colonializzato il nostro inconscio ed ucciso la nostra anima.
-Si certo, è vero, noi abbiamo delegato la guerra a delle compagini” professionali” (eserciti, terroristi), ma abbiamo anche imparato ad essere spettatori delle sofferenze altrui. Zippando davanti al nostro televisore passiamo senza magari fare distinzione, dalle immagini di una fiction di guerra a quelle reali di un bombardamento. Magari i wargame ci aiutano ad addirittura simulare la partecipazione diretta ad una battaglia che però per noi avviene soltanto su di un piano mentale. Manca l’odore del sangue. Il mondo classico proibiva l’immagine o la spettacolarizzazione della guerra e del dolore. Ad eccezione degli spettacoli circensi e dei gladiatori. Baudrillard scrisse durante la guerra del golfo un piccolo libro: La Guerre du Golfe n’a pas eu lieu vale a dire La guerra del golfo non è mai avvenuta. Sulla differenza tra guerra virtuale e guerra reale.
Vorrei adesso chiederle del suo romanzo, l’ultimo al momento Il Padre infedele, È un libro molto bello, ed anche qui il conflitto, la polemos e quindi la guerra sono presenti. È la storia di una paternità che apre ad un conflitto quasi dialettico tra amore per la figlioletta e infedeltà coniugale.
– “Il Padre infedele” racconta della cosiddetta guerra tra i sessi. Il libro parla per lo più dell’amore del padre per la sua bambina, dal momento che la madre piomba in una crisi psichica che non solo le fa rifiutare il marito ma anche la figlia. Il libro devo dire ha avuto successo ed è stato salutato anche dalla critica come un’opera molto importante. Per esempio Sandro Veronesi, molto tradotto qui in Svezia, ha voluto spendere parole molto lusinghiere sul libro. “Il Padre infedele” mostra anche l’impatto, soprattutto nell’Italia meridionale, tra la tradizione atavica e patriarcale, del pater familias, e la realtà del tutto nuova e tragica di una identità in crisi, un’identità ed una coscienza che deve continuamente rincorrere se stessa.
Questo cambiamento è forse avvenuto in Svezia anni fa ma da noi in Italia è qualcosa di molto più recente. Glauco Revelli, il personaggio principale del libro, appartiene alla categoria dei” nuovi padri”, vale a dire quei padri che si occupano dei propri figli, accudendoli, curandoli e svolgendo quel ruolo che in passato veniva ricoperto soltanto dalla madre o dalle donne.
Questo può essere una cosa positiva ma a volte anzi sempre più spesso si trasforma in un conflitto tra i sessi ed ha delle conseguenze sulla vita di coppia.
Positivo è il fatto che Glauco con l’accudire la figlia e con il darle tenerezza si comporta in una maniera assolutamente nuova rispetto a suo padre o a suoi nonni.
Diventa un nuovo soggetto sociale.
Il libro narra, o vuole essere un esempio, di una coppia che smette di essere una coppia nel momento che questa si trasforma in famiglia con la nascita di una figlia. Alla crisi che porta la madre a ritirarsi in sé stessa rifiutando il mondo esterno, fa riscontro la crisi del padre che cerca soddisfazione nel sesso disordinato.
Questo è una dato statistico in Italia oggi, il numero delle coppie che si separano durante il primo anno di vita in comune dopo la nascita del primo figlio è superiore a tutti gli altri anni sommati assieme. Questo per vari motivi, e poi, poi siamo il paese al mondo che genera meno figli.
Il confronto tra nati e defunti è stato l’anno scorso di meno 67.000, una cosa anch’essa nuova per un paese” proletario” per eccellenza come era l’Italia un tempo. I legami con la tradizione culturale sono venuti a mancare. Un figlio era una volta un evento naturale, oggi è un evento straordinario.
Il sacrificare tutta la propria vita ad una creatura non è cosa scontata. Il benessere ha portato ad una crisi, e là dove una coppia più o meno borghese, si chiedeva dove passare il week end, magari al mare o in montagna, ora non può più farlo. La nascita di un figlio cancella del tutto la possibilità del week end. Questo crea conflitti, l’egoismo personale, l’edonismo cieco lottano con l’istinto naturale a curare ed allevare i propri figli.
Una domanda sullo stile e la scrittura. Per lei viene prima la storia o la scrittura per raccontarla?
Io non faccio parte della categoria di scrittori che sostengono che lo stile sia tutto. Ritengo che oggi in Europa il linguaggio letterario debba cercare le proprie fonti non solo nella tradizione letteraria ma anche in altri tipi di linguaggio. Lo scrittore deve confrontarsi con gli altri media, attingere a queste fonti formidabili. Lo scrittore può anche ispirarsi, nello stile, per esempio alle serie televisive, ma poi, quando si siede per scrivere deve essere in grado salvaguardare la specificità della lingua letteraria, cercando magari di scrivere come Dante. Credo nella relazione tra nuovi media e linguaggio letterario. Una relazione che può anche non essere pacifica ma che è diventata necessaria.
Intervista a cura di Guido Zeccola